Nel 1964 divenne procuratore della Repubblica ad Aosta, dove si occupò dell’indagine sull’assessore socialista Milanesio e su alcune speculazioni edilizie nella zona di Pila.
Tre anni dopo tornò a Torino come sostituto alla Procura Generale, dove si occupò di diverse inchieste: nel 1973 sostenne l’accusa nel processo d’appello per l’omicidio dell’orefice Giuseppe Baudino, a seguito di una rapina; nel 1974 si era occupato, scegliendo Gian Carlo Caselli come giudice istruttore, del rapimento del magistrato genovese Mario Sossi da parte delle Brigate Rosse.
Nel 1980 divenne procuratore capo, intensificando la sua attività contro il terrorismo e debellando le colonne torinesi delle Brigate Rosse e di Prima Linea, grazie alla collaborazione dei primi grandi pentiti del terrorismo rosso, Patrizio Peci e Roberto Sandalo. Sempre nello stesso periodo si era occupato anche delle tangenti delle giunte rosse nel comune di Torino e del c.d. “scandalo petroli” o “scandalo dei 2000 miliardi“, le cui indagini, iniziate nel 1978, avevano coinvolto 18 diverse Procure e riguardavano essenzialmente un giro di contrabbando di petrolio con conseguente frode fiscale da 2mila miliardi di lire, risultato possibile “per le disposizioni legislative che la favorirono, per gli stretti legami tra la classe politica e gli uomini d’affari, per la connivenza di alti funzionari e ufficiali preposti ai controlli“.
Ridimensionata l’emergenza terroristica, aveva intensificato gli sforzi della procura nella lotta al traffico degli stupefacenti e alla criminalità mafiosa presente nella regione piemontese ed è proprio in questo ambiente che maturò all’inizio degli anni ottanta la decisione di ucciderlo. In particolare, l’evento scatenante fu, secondo il pentito Domenico Agresta, l’aver respinto i boss della ‘ndrangheta che avevano cercato di avvicinarlo[4]: «Erano entrati nel suo ufficio senza prendere un appuntamento. Ma lui gli aveva sbattuto la porta in faccia, li aveva cacciati in malo modo. Placido Barresi me lo raccontò in carcere: la cosa che più lo faceva arrabbiare era proprio questo, che lui non li avesse neppure fatti parlare. Per questo decisero di ucciderlo, mi disse che avevano deciso il cognato Mimmo e Ciccio Mazzaferro che all’epoca comandavano.»
Bruno Caccia nato il 16 novembre 1917 a Cuneo, è stato un magistrato italiano ucciso dalla ‘ndrangheta mentre ricopriva l’incarico di Procuratore Capo della Repubblica a Torino. Venne ucciso domenica 26 giugno 1983, nel giorno in cui si svolgevano in Italia le elezioni politiche generali, davanti a casa sua a Torino, in via Sommacampagna 9, mentre portava il cane a spasso senza scorta, come era solito fare. Alle 23:35 il procuratore capo venne raggiunto da una serie di colpi di fucile di precisione dall’autista di una Fiat 128, sulla quale si trovavano due uomini. Dopo i primi colpi, il secondo passeggero scese dall’auto e a distanza ravvicinata sparò altri colpi: il procuratore venne immediatamente soccorso e trasportato al pronto soccorso dell’Ospedale delle Molinette, ma vi arrivò già morto.
Il motivo dell’assassinio fu dovuto al desiderio da parte del Clan Calabrese di favorire l’ascesa di magistrati alleati a loro.
Dieci minuti dopo l’omicidio arrivò la prima rivendicazione da parte delle Brigate Rosse, alla quale ne seguirono altre tre, una alla sede milanese della Rai e due alle redazioni del Corriere della Sera e de Il Giornale d’Italia. Le rivendicazioni apparvero subito credibili, data la concomitanza dei processi alle colonne torinesi delle Brigate Rosse di Prima Linea, eppure le perquisizioni nelle celle dei terroristi alla ricerca di qualche documento furono senza esito.
Il giorno dopo venne ritrovata la Fiat 128 usata per l’agguato, chiusa e chiave e con all’interno una cartuccia di quelle usate contro il Procuratore: il proprietario risultava Angelo Cartillone, già coinvolto in un furto nella casa di campagna del procuratore a Ceresole d’Alba, ma interrogato dagli inquirenti affermò di aver subito il furto dell’auto qualche giorno prima; arrestato per dichiarazioni reticenti, venne scarcerato subito dopo per mancanza di prove contro di lui. Nel frattempo, i terroristi detenuti negarono qualsiasi coinvolgimento nell’omicidio di Caccia e arrivò una nuova rivendicazione con una telefonata a “la Stampa”, questa volta da parte dei terroristi di estrema destra dei NAR, ma anche questa si rivelò infondata.
La svolta nelle indagini si ebbe a un anno dall’omicidio: nel luglio 1984 il boss catanese di Cosa Nostra a Torino, Francesco Miano, decise di collaborare con gli inquirenti nella risoluzione del caso e raccolse le confidenze in carcere del boss della ‘ndrangheta Domenico Belfiore, registrandole con un sofisticato apparecchio a bobina nascosto sul suo corpo. In totale 36 conversazioni registrate, le cui trascrizioni storicizzarono la nascita e la fine dell’alleanza tra calabresi e siciliani, che insanguinò le strade di Torino e dintorni e si protrasse con diversi sequestri di persona.
In dieci anni si tennero cinque processi per la morte di Bruno Caccia, che si conclusero nel 1995 con la condanna all’ergastolo di Domenico Belfiore quale mandante dell’omicidio; ciononostante, i due esecutori materiali del delitto non vennero individuati.
A fine luglio 2014 l’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Caccia, presentò una nuova denuncia alla Procura della Repubblica di Milano nella quale venivano indicati come esecutori materiali dell’omicidio due persone mai indagate prima, Rosario Pio Cattafi e Demetrio Latella[5]; gli indizi a loro carico vennero poi illustrati in un incontro pubblico il 3 ottobre successivo organizzato dal presidente della Commissione Antimafia del comune di Milano David Gentili, alla quale parteciparono oltre all’avvocato Repici anche la figlia del magistrato ucciso, Paola Caccia, e il magistrato torinese Mario Vaudano, consulente tecnico della famiglia per le sue competenze in materia di anti-riciclaggio, già giudice istruttore aveva coordinato l’inchiesta sullo scandalo petroli.
Nella dettagliata controinchiesta alla base della nuova denuncia, i familiari evidenziarono il coinvolgimento della mafia catanese di Nitto Santapaola e dei suoi presunti colletti bianchi, intenti a riciclare nel casinò di Saint-Vincent i proventi della droga e dei sequestri di persona. Secondo la famiglia, Belfiore e la ‘ndrangheta avevano un interesse comune nel riciclaggio dei miliardi incassati con i riscatti dei sequestri di persona e del colossale traffico di droga verso la Francia.
Per la famiglia, infatti, il coinvolgimento della mafia catanese e di ambienti collusi nella vicenda del casinò di Saint-Vincent non sarebbe una pista alternativa, ma integrativa della condanna contro Belfiore, in quanto sarebbe già tutto scritto negli atti del primo processo, anche se poi la sentenza si arrivò a una diversa valutazione. Il primo presunto mandante sarebbe Rosario “Saro” Cattafi, 65 anni, ex estremista di destra ed ex-intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti, sempre sospettato di essere l’ambasciatore degli affari di Stato nel clan Santapaola o viceversa, attualmente imputato a piede libero in un procedimento per associazione mafiosa].
L’altro, denunciato come ipotetico killer, è Demetrio Latella, 63 anni, già fornitore di pezzi di ricambio alla marina militare e alla guardia di finanza, in quegli anni sicario calabrese al servizio dei catanesi a Milano e Torino; ergastolano premiato con la libertà anche quando trent’anni dopo la polizia ha scoperto la sua partecipazione, mai confessata prima, al sequestro di Cristina Mazzotti, la ragazza di 18 anni rapita nel 1975 in provincia di Como e uccisa nonostante i genitori avessero pagato il riscatto di un miliardo.
Il 6 luglio 2016 vi fu la prima udienza del nuovo processo, che però si concluse il 30 novembre dello stesso anno con una sentenza di “non doversi procedere” della Corte d’Assise sulla base di un errore procedurale grave della Procura della Repubblica], che non aveva chiesto la riapertura delle indagini non essendo a conoscenza di un precedente fascicolo archiviato nel 2001 a carico di Schirripa; l’errore commesso dalla Procura rese nulle tutte le prove raccolte dopo il 25 novembre 2015, giorno dell’iscrizione nel registro degli indagati del panettiere calabrese.
l 28 novembre, prima dell’annullamento del processo, la Procura riaprì le indagini, disponendo un fermo per Schirripa; il nuovo processo bis contro Schirripa iniziò il 10 febbraio 2017: la Corte, rispetto al precedente dibattimento, sostituì i giudici popolari ma non i giudici togati. Il presidente del collegio rimase Ilio Pacini Mannucci, lo stesso che aveva decretato il non luogo a procedere pochi mesi prima[10].
Il 23 marzo la Cassazione rigettò il ricorso dei legali difensori di Schirripa, giudicando valide le prove e le intercettazioni raccolte nel primo processo, poi annullato[11].
Il 29 marzo Demetrio Latella, iscritto nel registro degli indagati sulla base della denuncia della famiglia, convocato come teste in aula dichiarò: “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere perché sono indagato dello stesso reato”[12]. Se per gli inquirenti milanesi non c’era nulla di concreto a suo carico, per Repici e la famiglia del magistrato ucciso Latella sarebbe stato il trait-d’union tra criminalità organizzata e la zona grigia ostile al Procuratore.
Il 6 giugno l’avvocato Repici chiese 10 milioni di euro di risarcimento a favore della famiglia Caccia e attaccò la Procura, accusata di non aver voluto intraprendere alcun accertamento ulteriore sulla pista catanese, sostenendo che “si è preso l’albero per non prendere l’intero bosco”[13]
Il 17 giugno 2017 Rocco Schirripa venne condannato all’ergastolo. Prima della condanna si dichiarò ancora innocente e annunciò che avrebbe fatto lo sciopero della fame, in caso di condanna. “Sono un capro espiatorio, la persona perfetta per questa accusa: un calabrese con precedenti con la giustizia. Un terrone. L’ideale per chi vuole a tutti i costi ottenere una condanna ma non la ricerca della verità“[14].
Il 14 febbraio 2019 la corte d’Appello di Milano ha confermato l’ergastolo per Schirripa.
- Fabrizio Gatti, “Bruno Caccia, un omicidio senza giustizia”, l’Espresso, 3 aprile 2017
- Nicola Tranfaglia, Teresa De Palma, “Il Giudice dimenticato”, NarcoMafie, 2013