(N.D., 1924 – Gela, 28 settembre 1990)
Giuseppe Tallarita nasce a Butera, piccolo comune della provincia di Caltanissetta che sorge su una collina, il 15 gennaio del 1924. Quella in cui Giuseppe cresce è una famiglia umile, di lavoratori, con dei sani valori.
Trova presto lavoro come impiegato presso lo stabilimento Enichem di Gela e sul luogo di lavoro stringe subito amicizia con i colleghi ed è benvoluto da tutti.
È ancora poco più che bambino quando conosce Rosina e tra i due si crea sin da subito un legame forte e speciale, un’amicizia che si trasformerà presto in un amore vero e profondo che li porterà presto alle nozze. Da quell’amore nasceranno 5 figli, tre maschietti e due bambine. La giovane coppia è così affiatata che i due non si separano quasi mai, ma cercano di fare tutto insieme, dalla spesa alla cura dei figli.
Giuseppe vive per lei e per i suoi 5 figli; lavora per mantenere la sua famiglia, per non fargli mancare niente e, non appena finito il suo turno presso l’Enichem di Gela, torna a casa per trascorrere più tempo possibile con loro. È un papà attento e amorevole e con ciascuno dei suoi bambini crea un legame unico. La sua unica passione che lo allontana un po’ dalla casa è la campagna;
Giuseppe infatti, sin da bambino ama la terra, ama vedere germogliare la semina e aspettare con pazienza il momento giusto per raccogliere i frutti. Ha un appezzamento di terreno in contrada Desusino che cura con dedizione. In quel pezzo di terreno nei vari anni semina un po’ di tutto e, negli anni Ottanta, decide di seminare il grano. Così in autunno, con l’aratro prepara con pazienza il terreno per poi deporre i semi nei solchi precedentemente preparati, coprendoli poi con altra terra. Arriva la primavera e Giuseppe spesso, terminato il suo turno di lavoro nell’industria petrolchimica, si reca sul suo terreno per controllare le colture e verificare che il processo di maturazione del grano avvenga regolarmente.
Un giorno trova un gregge che pascola abusivamente proprio lì, sul suo appezzamento, mettendo così a repentaglio tutto il suo paziente lavoro. Giuseppe allora non ci pensa due volte e rimprovera il pastore che guida il gregge; è appena un ragazzo e Giuseppe prova a fargli capire i danni che il passaggio degli animali provoca sui terreni coltivati ma quel ragazzo, invece di scusarsi e allontanare le pecore, continua a reiterare quell’attività. Anche negli anni successivi fa pascolare abusivamente il suo gregge su quei terreni coltivati.
Gli anni passano e Giuseppe, all’età di 60 anni, va in pensione, può così, finalmente, dedicarsi solo alla sua Rosina, godersi i suoi 9 nipotini e occuparsi della sua campagna che piano piano, con dedizione e costanza, trasforma in un vero e proprio giardino con terrazza sul mare. Tra i vari cambiamenti che opera per migliorarlo c’è quello di impiantare, al posto del grano, degli uliveti ma c’è una cosa che non cambia: il pascolo abusivo delle pecore sul suo terreno.
Così, un giorno, Giuseppe va a trovare il giovane pastore, pregandolo con gentilezza di evitare di danneggiare le giovani piante di ulivo che con tanta fatica ha impiantato.
Quel giovane pastore è diventato uno dei killer più spietati della “stidda”, e capo latitante degli “stiddari” del comprensorio di Gela.
È il 28 settembre del 1990 e Giuseppe è voluto andare da solo sul suo terreno, per fare qualche lavoretto di manutenzione. È un giorno speciale, di festa, perché è il giorno del compleanno della sua Rosina e anche il loro anniversario di matrimonio e la sera ceneranno tutti insieme, con i nipoti al completo.
Giuseppe è felice ed è assorto nei suoi pensieri quando, durante lo spostamento da un covo all’altro, il pastore-killer si trova a passare proprio dalla strada che costeggia la tenuta di Giuseppe. Lo vede intento al lavoro e – ricordandosi dei rimproveri ricevuti – dà ordine a due dei sicari che lo scortano di ucciderlo.
I due sicari non se lo faranno ripetere due volte, vanno verso di lui, estraggono le loro armi e sparano 7 colpi a distanza ravvicinata, di cui due in pieno volto. Giuseppe, prima di morire farà solo in tempo a chiedere ai suoi sicari “perché lo state facendo?”, ma non avrà risposta, morirà solo, sul suo terreno, all’età di 66 anni, alle 18.30 di quel 28 settembre, senza avere la possibilità di festeggiare con la sua famiglia. Ucciso per aver provato a impedire che delle pecore calpestassero il raccolto seminato con tanta cura e impegno, mandandolo in rovina.
Il giorno dopo il barbaro assassinio di Giuseppe, la sua famiglia, già duramente provata dal dolore, è scossa da un’altra notizia: il giornale “La Sicilia” appioppa a Giuseppe Tallarita il titolo di “don”. E così gli abitanti di quel piccolo paese continuano a mormorare: “Sarà uno di loro, non può essere innocente, sapeva qualcosa di troppo”. Ma Giuseppe Tallarita non era uno di loro e non aveva visto un bel niente. Aveva solo cercato di impedire che delle pecore gli calpestassero il raccolto; non sapeva che quel bestiame appartenesse agli “stiddari”.
Non sapeva, e non poteva sapere, che quel giovane pastore sarebbe diventato presto uno dei killer più spietati della “stidda”, ma quella semplice e scontata richiesta di rispetto dei confini e del lavoro altrui non poteva essere certo accettata dalla mafia che pretendeva di avere il pieno controllo su tutto il territorio, soprattutto in quegli anni in cui si contendeva con altri clan tutta la zona attorno a Gela.
E così lo uccidono, per punirlo per non aver ceduto alla loro prepotenza, e lo fanno in quel modo tanto cruento per dare un segnale a tutti e far sapere chi comanda. In sede processuale i due sicari e il mandante di quel barbaro assassinio verranno condannati – per il reato di omicidio aggravato da crudeltà e da futili motivi – all’ergastolo.
Associazione
Per tenere viva la memoria di Giuseppe la sua famiglia, grazie in particolare all’impegno costante di sua nipote Rosy, ha fondato un’Associazione chiamata “Vedo, sento, parlo, in memoria di Giuseppe Tallarita”